Vorrei camminare per le strade senza avere paura, anche in penombra e decidere da me in che luogo della città risieda la bellezza.
Se sui ponti bagnati dalla nebbia, o nella linea delle case popolari, o nelle casette a schiera con piccole geometrie di fiori nei giardini.
Non dover mai dire: questo è centro o perferia. Qui si può e qui è troppo tardi per restare.
Se non ci fossero le gerarchie delle strade forse saremmo tutti più dispersi e meno accalcati in quei due o tre punti “in” che segnalano una socialità “giusta e buona”.
Se non ci fossero le gerarchie delle strade e delle “caste” ognuno sarebbe libero di fondare “il proprio luogo” e “il proprio stare” dove gli pare, secondo l'indole e la volontà di un dato momento.
Nella città che vorrei ad ogni angolo si schiuderebbero scorci che non temono l'indifferenza dello sguardo, e ad ogni modo, la più piccola strada o il più piccolo uomo della mia città sarebbero trattati con riguardo. Ma la ricerca di un'estetica architettonica sarebbe solo il coronamento dell'estetica della vita, della qualità con cui uomini e donne potrebbero vivere insieme. Le opere d'arte, uno svolgimento naturale della vita quotidiana, non un superfluo che tenta di sopperire a una mancanza.
Si costruirebbero luoghi di incontro e di solitudine a seconda delle necessità che cambiano nell'uomo. Luoghi di dibattito e luoghi di svago, e dico svago intendendo una gioia vitale e vivificante, un'impulso che è quello del ritmo nella danza, non un “impigrirsi” delle menti. Nella mia città il sonno sarebbe un luogo d'immaginazione e non una morte apparente per rigenerare il corpo disfatto.