Livia (Mariangela)
Da: B.-Marie Koltès, L’eredità
Proposta n.3
P. La città, vedi la sera che avanza e la ricopre. Un giorno scenderò fino in fondo insieme a te. Ma la città sembrava morta oggi. Sei muta stasera? Non ci sei andata?
T. Non c’era niente, non c’era più la città quando sono scesa, sparita, evaporata, più niente, e restiamo solo noi qui, e tu sopra a tutto. No, non te ne andare.
P. Se la città non c’è più e tu nemmeno, perché restare?
T. Sì, la città c’è, e ci son io, che l’ho vista.
P. Io la vedevo bruciare, poco fa, con gran rumore di crolli, e di grida. Che cosa resterà, domattina?
T. C’è, c’è. Continua a vivere. È già stata bruciata, e bruciata di nuovo, è stata assediata, saccheggiata, condannata mille volte, e la vita continua. Stamattina c’era uno strano corteo che attraversava la città. Usciva dalla chiesa e veniva avanti sempre dritto. Era una sposa, molto alta, con degli occhi chiusi e immensi, tutta piegata da un lato come se stesse per cadere. Stava appoggiata là, quasi perdendo l’equilibrio, solo su un lato di un piede; come se stese barcollando. Un gruppo di ragazzine, con le facce grasse e le pance gonfie, le teneva i bordi del vestito, e dei ragazzini enormi saltellavano pesantemente tra gli invitati. Così il corteo ha attraversato la città. E la vita continuava. Le stradine erano vuote, ma passava il corteo, con la sposa.
P. Ma non c’era più nessuno nelle strade. Dove sono finiti tutti?
T. Ci sono, ci sono, anche se non si vedono. In mezzo alla piazza, al centro della città, dove non passa più nessuno, ci sono ancora due uomini che non se ne vanno. Puoi guardarli, fissarli senza che ti dicano niente. Uno dei due è enorme, tanto che non riesce ad alzarsi. Piange senza posa, e soffoca da quanto piange, vomita ogni tanto per qualche secondo, poi si rimette a piangere e a soffocare, quindi vomita di nuovo, così, così, tutta la notte e tutto il giorno. Anche l’altro sta lì, e gli volta le spalle. Aspetta, in piedi, e batte come un orologio, regolarmente, col piede, pum, pum, e gira sull’altra gamba immobile e diritta; e la sua mano ha le dita aperte in fondo al braccio teso, incurvate in uno strano modo, come se non stesse lì così per farci mettere qualcosa dentro, ma solo per girare col resto come la lancetta di un orologio, pum, pum, pum. Senza fermarsi, regolarmente, tutti i giorni e tutte le notti.
P. E adesso, che è venuta la sera?
T. La sera è arrivata sulla città, e non si è più mosso niente.
P. I fuochi sono spenti. Tutto sembra addormentato.
T. I rumori sono cessati. Il silenzio. E questa volta le strade sono del tutto deserte.
P. E noi ci siamo seduti.
T. Sono arrivati i cani, grassi, umidi, ansimanti, già giocando. Ce n’erano sei. Si sono fermati in pieno sole, proprio davanti a noi, bruscamente inquadrati e fissati dalla luce della sera. Hanno continuato a giocare, e il sole continuava a tramontare. Si sono accoppiati, ringhiando, zanne in fuori. E abbiamo guardato il sole tramontare, con gli alberi che stavano immobili, e la terra calma, mentre quelli sbavavano ai nostri piedi come tre mostri agitati, gli occhi pieni di sangue. Il sole che se n’era andato; i cani che non la smettevano. E noi che non osavamo muoverci.
P. Fa notte ora. I vostri occhi sono stanchi e dovete dormire.
T. Ancora un momento. Guardate la notte con me. Non l’ho mai vista così profonda e così bella.