Una città che non si cancella dalla mente è come un’armatura o un reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare. La città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso e mentre credi di visitarla non fai altro che registrare i nomi con qui essa definisce se stessa e tutte le sue parti.
Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo uscirà da lei senza averlo saputo. Fuori si stende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono le nuvole.
La città è ridondante. Si ripete perché qualcosa arrivi a fissarsi nella mente. Il mio ricordo comprende dirigibili che volano in tutti i sensi all’altezza delle finestre, vie di botteghe dove si disegnano tatuaggi sulla pelle ai marinai, treni sotterranei stipati di donne obese in preda all’afa. I compagni che erano con me invece giurano d’aver visto un solo dirigibile librarsi tra le guglie della città, un solo tatuatore disporre sul panchetto aghi e inchiostri e disegni traforati, una sola donna-cannone farsi vento sulla piattaforma d’un vagone. La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere.
Ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la riempiono.
In ogni luogo di questa città si potrebbe volta a volta dormire, fabbricare arnesi, cucinare, accumulare monete d’oro, svestirsi, regnare, vendere, interrogare oracoli. Se l’esistenza in tutti i suoi momenti è tutta se stessa, la città è il luogo dell’esistenza indivisibile.
La notte accanto ai fuochi tutt’intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o sdraiati sui mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice – come “lupo”, “sorella”, “tesoro nascosto”, “battaglia”, “scabbia”, “amanti”, gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. La città in cui si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio.