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 "Il gioco del mondo" di J. Cortàzar

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MessaggioTitolo: "Il gioco del mondo" di J. Cortàzar   "Il gioco del mondo" di J. Cortàzar Icon_minitimeLun Nov 28, 2011 2:09 pm

Avrei incontrato la maga? Tante volte mi era bastato affacciarmi, arrivando da rue de Seine, all’arco che dà sul quai de Conti, e appena la luce di cenere e di olivo sospesa sul fiume mi lasciava distinguere le forme, subito la sua figurina sottile si disegnava sul Pont des Artes qualche volta muovendosi da una parte all’altra, qualche altra ferma contro la ringhiera di ferro, china sull’acqua. Ed era così naturale attraversare la strada, salire i gradini del ponte, penetrare nella sua sottile vita ed avvicinarmi alla Maga, che sorrideva senza sorpresa, convinta quanto me che incontrarsi per caso non era un caso nelle nostre vite, e che la gente che si dà appuntamenti precisi è la medesima che ha bisogno del foglio a righe per scriversi o che preme dal basso il tubetto del dentifricio.
Ma adesso lei non ci sarebbe stata, sul ponte. Il suo volto delicato dalla pelle quasi trasparente si affacciava forse ai vecchi portici del ghetto del Marais, forse stava chiacchierando con una venditrice di patate fritte o mangiando un salsicciotto caldo nel boulevard Sebastopol. Ad ogni modo, salii sul ponte, e la Maga on c’era. Adesso la Maga non era neppure sulla mia strada, e per quanto conoscessimo i nostri indirizzi, ogni vuoto delle nostre due stanze di falsi studenti a Parigi, ogni cartolina come una finestrella Braque o Ghirlandaio o Max Ernst stretta fra le povere modanature e la tappezzeria chiassosa, nonostante questo non saremmo andati a cercarci in casa. Preferivamo incontrarci sul ponte, al tavolino di un caffè,in un cineforum o curvi su un gatto in un qualsiasi cortile del quartiere latino. Camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci. Oh, Maga, a ogni donna che ti somigliava s’addensava intorno un silenzio assordante, una pausa tagliente e cristallina che finiva per crollare tristemente, come un ombrello bagnato che si chiuda. Proprio un ombrello, maga, forse ricorderai quel vecchio ombrello che sacrificammo in un fossato del Parc Montsouris, in un gelido tramonto di marzo. Lo gettammo via perché lo avevi trovato in place de la Concorde, già un po’ rotto, e lo usasti moltissimo, soprattutto per infilarlo nelle costole della gente sul metrò o sugli autobus, sempre goffa e distratta, sempre con la testa per aria o attenta al disegno che due mosche tracciavano sul tetto dell’auto, e quella sera cadde un acquazzone e tu volesti aprire orgogliosa il tuo ombrello quando entrammo nel parco, e nella tua mano scoppiò un cataclisma di freddi fulmini e nuvole nere, brandelli di stoffa lacerata cadevano fra lampi di stecche sgangherate, e ridevamo come matti mentre ci bagnavamo, pensando che un ombrello trovato in una piazza doveva morire degnamente in un parco, non poteva entrare nell’immondo ciclo del secchio della spazzatura o dello scolo di un marciapiede; allora io lo arrotolai meglio che potei, lo portammo nella parte alta del parco, vicino alla passerella sopra la ferrovia e di là lo lanciai con tutte le mie forze in fondo al fossato di erba bagnata mentre tu emettevi un grido nel quale credetti di riconoscere vagamente un’imprecazione di valchiria. E giù nel fosso affondò come vascello che soccomba all’acqua verde. [..] E restò fra l’erba, minimo e nero, come un insetto calpestato. E non si muoveva, nessuna delle sue molle scattava come prima. Finito. Basta.

Quello che ti succede è che non sei un poeta. Non senti come noi la città simile a un’ enorme pancia che oscilla lentamente sotto il cielo, un enorme ragno con le zampe a San Vicente, a Burzaco, a Sarandì, a Palomar, e le altre nell’acqua, povera bestia, con tutta la sporcizia che c’è nel fiume. E per le strade, passano ragazze dagli occhi dolci e dai faccini dove il riso al latte e Radio El Mundo hanno lasciato uno strato di talco di piacevole stupidità.
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